E il vento soffia, e il vento ulula. Parola di Nick Cave.

Standard

Get down, get down little Henry Lee…


Spesso le femminucce indicano qualche allucinante scaldabagno e mormorano “ammazza che fico”.

La lista sarebbe tanto lunga e tanto articolata che certamente dimenticherei un centinaio di nomi, ed i più significativi.

Alle volte capita però, che tra questi inspiegabili figuri compaia anche qualche mostro di carisma, un individuo tutt’altro che piacente, il quale, tuttavia, esercita un fascino talmente potente che anche un uomo deve riconoscerne l’efficacia.

Taglio corto e volo dritto su Nick Cave.

Che di piacevole ha ben poco. Oscuro, evidentemente disturbato e neppure caratterizzato da qualche sintomatico alone di mistero.

A me dà l’idea, e l’ha sempre data, che sia esattamente come appare.

Ma il tale ne ha di carisma, pure troppo.

E alcuni suoi brani, neri più di lui, infestano le memorie, capaci di tornar fuori a distanza di anni anche senza che nessun interruttore appropriato venga attivato.

Murder Ballads è il nono album in studio di questo bel tomo. Dieci canzoni in perfetto stile folk americano, di morti violente (la maggior parte legate alle scomode e poco prevedibili evoluzioni del problema “amore”) in cui la voce di Nick Cave calza come il guanto più scuro della cassettiera.

In alcuni casi, come Stagger Lee e Henry Lee  si tratta di una rivisitazione di ballate tradizionali, altrove la vena poetica secerne delle perle capaci di monopolizzare i ricordi per parecchio tempo.

E tra tutti i brani del disco, quello che ultimamente ha preso in affitto il mio cervello è proprio Henry Lee, complice la languida lalalala la la la li del ritornello.

Ma scavo un po’, lo ammetto, il gancio che si è incastrato da qualche parte della mia sensibilità non è solo nella semplicità del motivetto. C’è in questa storia, semplice, crudele, cupa e ovvia proprio come la maggior parte delle vicende vere, qualcosa di seducente.

Henry Lee torna verso casa, e una donna lo invita a giacere una notte con lei. Ma Henry Lee, sincero e spudorato, rifiuta dicendole che ha una ragazza in una felice terra verde, che ama molto più di lei.

Il bel seduttore si china sulla staccionata per regalare un bacio alla donna, e questa con un temperino lo scanna.

La la la la la li.

Appunto.

Che di ferocia, secondo il vostro Machete, le donne di tutti i tempi sono sempre state delle gran maestre.

Ti facevo più psichedelico

Standard

La mia collega esordisce così, nel primo intervallo a microfoni spenti.

Come nella più classica delle tradizioni, mercoledì la connessione wireless in studio non funziona, le cuffie non collaborano e gli altoparlanti emettono rutti e frusci come un suino dimenticato nella giungla.

Ma noi, i duri e i puri di Quantaradio, bestie abituate a trasmettere quando l’umanità dorme, non ci siamo piegati e la trasmissione è partita lo stesso. In un atmosfera semi delirante, eravamo tagliati l’uno dall’altra, incapaci di poter ascoltare la reciproca voce, mentre da casa (ci dicevano) il segnale arriva nitido e candido.

Quindi il nostro debutto in prima serata si apre sotto la stella fantozziana, che, si sa, piace a grandi e piccini.

E sembrerebbe che l’inedita accoppiata del mercoledì sera piaccia altrettanto.

Ad un tratto, dopo aver mandato l’improbabile brano degli Ace of BaseLiving in Danger“, Alessandra esordisce con la frase che dà il titolo a questa bloggata.

Ti facevo più psichedelico, Machete.

Che so, roba rock progressive, o altro. Invece mi mandi l’Europop degli anni 90.

Svedese, per giunta, aggiungo io nella mia mente che adora le annotazioni a piè di pagina.

Avevo da parte in scaletta, pensa un po’, Freefall dei Camel, dal loro album Mirage del 1974.

Roba che merita al 100% il termine “psichedelico”.

Ma l’argomento della serata era “Teoria di un fallimento: a cosa aspiravi da bambino? e cosa ti sei ridotto a fare adesso?”

Lynn Bergen, l’irraggiungibile bionda degli Ace of Base, disse nell’ultima intervista rilasciata prima dell’abbandono della ribalta, “Ho sempre desiderato cantare da bambina. Ora invece mi trovo a fare la cantante”

Gap incolmabile, sembrerebbe.

Ho preferito spostare i cari Camel in un’altra serata, sembra che il duo Alessandra – Machete funzioni quanto basta per assicurare almeno un seguito all’esordio.

Abituato a fare il leone, l’autocrate del microfono mentre qualche ospite mi faceva da spalla, ho dovuto notare quanto sia difficile cambiare la formula ed entrare in coppia; il mio tentativo di fondare una religione su me stesso deve subire quindi delle adeguate modifiche, mutando anche il personaggio che finora mi ero ostinato a portare davanti al microfono.

Ammetto di trovarmi più simpatico come “Conduttore Poco Psichedelico” che come “Profeta del Monoteismo Radiofonico”; prendermi poco sul serio è la mia specialità, e tenere banco da solo era una faccenda troppo rigida per il vostro Machete.

 

Ci siamo sconosciuti in diretta

Standard

Per la prima volta (mi pare, ma la mia memoria non è particolarmente affidabile in materia) vi porto dall’altra parte del mixer, dove la musica raramente si sente, e dove s’affaccenda l’officina del dj. O aspirante tale.

Diciamolo, la figura del dj notturno fa brutalmente fico.

Ma, con la stessa dose di sincerità, tocca ammettere che a guardarmi in faccia il dj notturno è l’ultima cosa che vi verrebbe in mente.

Così, di questo personaggio magnetico, un po’ ruvido, un po’ erotico, un po’ sordido e un po’ esoterico, mi resta solo l’orario scomodo per trasmettere e l’orario ancora più scomodo per tornare a casa.

Sicchè, nell’ultima riunione di noi Quantaradiensi, alla notizia che si è temporaneamente liberato un posto il mercoledì sera dalle 21 alle 23, i miei occhiacci da dj tenebroso si sono spalancati.

Contemporaneamente, dall’altra parte del circolo di sedie, si spalancavano anche gli occhi di un’altra dj, confinata nel medesimo orario-prigione.

E sebbene nella vita quotidiana l’accondiscendenza  e il sorriso accomodante mi facciano difetto, in quella serata di grande convivialità djense ho trovato molto semplice la via della pace e del compromesso.

Detto fatto.

Da questo mercoledì tentiamo un nuovo format, unendo il mio vecchio “Nella vita mi alzo tardi” a “Luna di Notte”. Cosa verrà fuori?

Bella domanda.

Io non conosco Alessandra (ho ammesso serenamente di non averla mai ascoltata) e lei non conosce me (stessa ammissione con lo stesso candore).

La mia trasmissione è un culto della personalità di un dj isterico camuffato (neanche troppo bene) da format radiofonico.

La sua, dalle poche parole spiccicate durante la riunione, mi ha dato l’idea di essere uno di quei bei programmi con parecchie cose da dire e delle idee chiare in scaletta.

L’opposto del mio modo di far radio.

Ora, al di là della tiritera popolare secondo la quale gli opposti si attraggono – e alla quale ognuno di noi, in tempi alterni, prova ad attribuire più saggezza di quanta non meriti – trovo in questa prospettiva di fusione delle ottime occasioni.

Perchè – ora mi atteggio a pensatore di inizio millennio – le civiltà che hanno prosperato nella storia di questo rotolante pianeta sono proprio quelle che hanno avuto maggiori incontri con i popoli confinanti.

Perchè non esiste un inventore geniale. Ma solo delle menti attente – come Watt, Edison o i fratelli Wright – che hanno saputo collocarsi sulla scia di altri menti attente, e aggiungere il loro tassello prezioso ad un cammino comune.

Perchè, alla fin fine, condurre da solo è scomodo.

Lasciatevelo dire.

Devo ricordarmi di dimenticare le cose più spesso.

Standard

Smarrire il bancomat non è un evento degno di nota.
Tantomeno in grado di suscitare l’attenzione necessaria per un post in un blog, per quanto discutibile e vago quanto il mio.

L’avevo dimenticato.

E non era, guarda il caso, la prima volta. Trafila ormai imparata alla perfezione: telefonata, denuncia, banca.

“Dove ha smarrito il bancomat?”
“Non me lo ricordo”.

Anche perchè se lo ricordassi, non mi troverei certo in un commissariato.

Toccante constatare come, alla seconda digitazione del nuovo pin, l’ho già memorizzato alla perfezione.

Nasce quindi un dialogo, un po’ imbarazzato e un po’ stizzito, col mio cervello, che reputa fondamentali alcune questioni e ridicole delle altre. Con un criterio di priorità opposto al mio.

Dov’è la materia per un post?
Radiofonico, o supposto tale, per giunta?

Aldous Huxley, pioniere della psichedelia, babbo prolifico di una generazione probabilmente smarrita per strada, nelle “Porte della Percezione” (che cito come un Nerd farebbe con l’Armata delle Tenebre) teorizza come gli allucinogeni funzionino proprio compromettendo il regolare lavoro del nostro cervello.

Sabotandolo. Invitano quindi le nostre percezioni a lavorare al contrario, arrivando a sottovalutare ciò che per millenni di evoluzione ha assunto il valore di fondamentale, e spingendoci a soffermarci sul massimo dell’inutilità, dal panneggio di un tessuto alle venature del legno di un tavolo.

Dove voglio arrivare?

Non lo so, tanto per cambiare. Ma è piacevole considerare come le cose reputate indispensabili dalla nostra mente cosciente si rivelino, in alcune, illuminate circostanze, semplice aria fritta.

Ed è meraviglioso, a mio parere, perdersi nell’estatico respiro dell’aria fritta.

Jimi Hendrix probabilmente la sapeva lunga a riguardo.

Burning of the Midnight Lamp, per dirne una.

Il respiro della locomotiva, ovvero il vecchio Ian non può essere fermato

Standard

Periodo di trasferte ad un ritmo – per me – mai visto prima. Si parla di un viaggio alla settimana.

Attività che il vostro territoriale DJ Machete si era ben guardato dal contemplare prima di questi giorni.

Terni, Bologna, Firenze. Prossima settimana in programma Milano e Frosinone.  E insieme alle bellezze architettoniche e alle sfavillanti geometrie anatomiche di giovani e meno giovani di mezza Italia, sto godendo di un rapporto più stretto con le ferrovie italiane.

Questo, mi sono detto con tono definitivo, deve diventare materia per qualche puntata in radio.

E come accade con la maggior parte dei miei propositi, ho trovato cento e una buona motivazione per archiviare l’idea.

Dopotutto, mi sono detto, non sono che un viaggiatore occasionale. Che diritto ho di prendere l’argomento?

Fare lo scontento, quando qualcuno da anni sopporta con uno stoicismo esemplare?

O fare la parte (fintissima) del soddisfatto, alla faccia di tutto quello che fa acqua (metaforica e non) da tutte le parti?

Quindi il dibattito sulle angosce del viaggiar su rotaie attendono ancora, magari mi farò prendere da qualche furor e sproloquierò alla faccia della mia scarsa esperienza sull’argomento.

Ma non ho lasciato scappare l’occasione di parlare di treni in musica.

Ovviamente, il buon country, e tutti i suoi figlioli più o meno riconosciuti, dallo swamp blues al southern rock, hanno inciso un migliaio abbondante di canzoni con titoli e riferimenti al cavallo ferrato.

Ma anche al di fuori di questo fenomeno (che anno dopo anno apprezzo sempre di più) c’è qualche titolo che va citato.

E ovviamente trasmesso.

Come al solito, la mia ignoranza musicale è provvidenziale. Riprendo in mano i soliti tomi, mi tuffo a testa bassa tra youtube ed altro, e tiro fuori questo indimenticabile capolavoro dei Jethro Tull.

L’album di provenienza è la colonna Aqualung. Il bilico tra blues e progressive rock è nel suo momento più carismatico.

Ian Anderson soffre come un raccoglitore di cotone, il ritmo incalza, il treno parte e, come il testo suggerisce, il vecchio Charlie non può essere fermato.

In radio la trasmetto col sorriso sulle labbra, sono le 00.12 e chi mi segue fino a quell’ora trova una piacevole sorpresa negli altoparlanti.

Difficile restarne immuni, evito di sollevare il dibattito su chi sia questo Ol’ Charlie.

Chi ci vede il demonio (in Gran Bretagna questo è uno dei suoi soprannomi), chi Darwin (il treno che non può essere fermato) chi addirittura Dio. Il flauto suona, io non ci penso, nemmeno il mio ospite di giovedì sera, e probabilmente neppure il pubblico da casa.

Dio, che piacere mandare questa roba.

jethro tull

Sheryl e Aldous. Ovvero Corri, ragazza. E sorridi.

Standard

Mi è accaduto diverse settimane fa, durante la preparazione della scaletta di una puntata in radio, di ascoltare di nuovo una nota canzone di Sheryl Crow “Run baby run”. Finalmente un po’ meno avverso alla lingua inglese, riesco anche a capire quello che dice nella prima frase

“She was born in november 1963, the day Aldous Huxley died”.

In pratica la protagonista di questa canzone è nata il 22 novembre 1963. Una bella perifrasi, un po’ complicata e decisamente musicale, per farcelo capire.  Annoto, come annotano tutti, che lo stesso giorno morì anche John Kennedy.

In pubblica piazza faccio outing della mia ignoranza, e confesso che prima di qualche mese fa, non sapevo chi fosse Huxley. Wikipedia mi corre in soccorso e mi informa, con la laconicità che le appartiene, che fu un “umanista, pacifista, letterato e biologo”. Autore, tra le tante cose, del “Mondo Nuovo” e del fondamentale “Le porte della Percezione”.

Quello di Jim Morrison, su, non facciamo i vaghi.

Complice l’amicizia con una libraia, ordino rapido i due volumi (piccoli ed economici, agamus Deo gratias).

Che personaggio.

Rappresentante della illustre famiglia degli Huxley, biologi e scienziati di fama internazionale e di prestigio secolare, (uno di loro fu il mentore di Wells, l’autore della macchina del tempo) docenti universitari e luminari della chimica, Aldous Huxley fu il fondatore di tutto ciò che è stato meraviglioso e che le generazioni successive, come la mia, hanno rovinato.

Un intellettuale che viaggia in India e si avvicina alle filosofie orientali, un erudito con una sconfinata passione per l’umanità e animato da un abbagliante (e forse abbagliato) ottimismo nelle nostre capacità,  romanziere distopico (ma mai deluso fino in fondo), saggista illuminato, sperimentatore della mescalina.

Leggetevelo.

Leggetelo perchè le sue pagine sono piene di luce. Anche nel “Mondo Nuovo”, quando dipinge con toni profetici (tremendamente) la nostra società, percepisco che non ci crede fino in fondo. O che, come ammette lui stesso nello splendido saggio che fa da postilla al romanzo “Ritorno al Mondo Nuovo”, sperava che non si realizzasse così presto.

Ha aperto quelle famose porte che poi hipster, artistoidi e rigurgiti di intellettuali degli anni a venire hanno vandalizzato e dietro alle quali hanno nascosto le loro incapacità creative. E quello che ha visto sembrerebbe essere, a giudicare dallo spirito che anima le sue pagine, qualcosa che restituisce dignità e bellezza all’umanità.

Forse perchè ascoltavo Sheryl Crow quando avevo 15 anni. O forse perchè ho finalmente capito il motivo per il quale la protagonista della sua canzone nasce il giorno in cui morì Huxley, e non Kennedy.

Ma adesso questa canzone ha colori molto più solari per me.

Aldous Huxley

 

Zagor e Billy Joel, ovvero saper durare

Standard

Le alternative possono essere solo due, quando si tratta di prendere un treno alle sei del mattino.

O si arriva con un anticipo ridicolo, o si salta sul treno al momento della chiusura delle porte, in perfetto stile western.

Stavolta mi è toccato l’eccitante sapore dell’anticipo, quindi, per non farmi mancare il brivido western e per trascorrere un po’ del tempo (che stranamente avanzava) ho comprato un numero di Zagor.

Zagor la Mummia delle Ande

Ora, tralasciando qualunque commento di valore sul fumetto in sè ( mi riservo di scatenarmi in un assolo su Zagor nella puntata di giovedì in radio), ho la necessità di condividere con voi una delle mie considerazioni.

Ossia che questo Spirito con la Scure combatte, indaga, stana e piacioneggia da 50 anni, per la precisione da 620 numeri. Ora, converrete con me che il vecchio west (e il Sud America di quell’epoca, ve lo concedo) possono essere dei setting molto interessanti, ma alla lunga le idee potrebbero scarseggiare.

Che dire di Tex Willer, interverrete voi?

Già, che dire?

Ciò che mi stupisce (con immenso piacere) è che anche in questa generazione, per la quale qualunque cosa inizi vagamente ad odorare di vecchio va cestinata all’istante, sta roba sopravvive. Vero è che il grosso dei lettori di Zagor e Tex non sono proprio dei ventenni, ma c’è chi milita anche tra queste frange capellute di giovinastri.

Un commento a tutto ciò?

Che sono felice. Che sono speranzoso. Che se ben educati (e con un motivo valido – ad esempio Zagor) anche la mia generazione può mantenere una passione, o anche solo un parere, per un tempo lungo.

Dicendola in musica:

Progettare una colonna sonora senza trama

Standard

Ovvero preparare la valigia per il primo viaggio di lavoro a Bologna. Campionario, cartina con tutti i nuovi clienti segnati in ordine di distanza dalla stazione, un paio di libri (il solito mattone di filosofia per l’andata, qualcosa di easy per la pausa pranzo), il blocco di copie-commissione e i cataloghi.

Ma la parte più delicata di questi preparativi risulta sempre la composizione di una playlist da inserire nell’mp3.

Svuotare quella precedente, e tracciarne una nuova, caotica, insensata, ricca almeno quanto quella che c’era prima. Sì, perché avere una canzone nelle orecchie piuttosto che un’altra è, per me, molto determinante per l’andamento della giornata.

Non meno delle condizioni meteo che, come accade sempre durante la mia prima visita in qualche città, prevedono cielo grigio e acqua in agguato.

Il vestito che porta la ragazza al primo appuntamento. Il piatto che ti cucinano quando visiti la casa dei genitori della tua fidanzata per la prima volta.

Condizioni vincolanti.

Quindi, mi dispiace dover mettere nelle mani di terzi elementi la sorte della mia conoscenza con Bologna, ma mi comporterò con lei come ho fatto con tutte le altre città d’Italia finora conosciute.

E anche domani mi rimetterò alla cordialità dei nuovi clienti per farmi indicare qualche posto interessante dove trascorrere la pausa pranzo.

Intanto inserisco nella playlist, in ordine sparso

ma anche

senza omettere

Sentiremo cosa succederà.

 

 

Né figli né figliastri, semplicemente Sam Cooke

Standard

Sarebbe prerogativa di un DJ che si rispetti, quella di non eccedere in commenti e divagazioni su un artista solo perché appartenente alla schiera dei “suoi preferiti”. Ma diciamolo, di rispettabile ho ben poco, ancor meno nella piccola sfera della DJtudine.

La scorsa settimana ho avuto di nuovo l’occasione di passare un brano di Sam Cooke, nello specifico Twistin’ the Night Away. E mettendo le mani avanti, ho speso qualche parola in più su di lui, nella più totale imparzialità.

In questo spazio, che non s’è mai proposto di essere obiettivo e superpartes, ho la possibilità di sproloquiare quanto vorrei.

Sam Cooke. Che nacque Samuel Cook e aggiunse una “e” a carriera inoltrata per nobilitare il cognome. Un po’ come fece il Defoe di Robinson Crusoe per francesizzare il proprio. Ma fermiamoci. Come al solito divago.

Nasce nel 1931 nel Mississipi in una famiglia di sette fratelli e sorelle, e insieme a quattro di loro, sotto la guida e gli insegnamenti del padre reverendo forma un quintetto dal nome poco complicato di The Singing Children. Inizio di parabola quasi stereotipato per i cantanti del genere, ma non è quasi mai l’originalità, secondo la mia opinione, a formare il valore di un artista.

Sam a diciannove anni riceve la proposta di aggiungersi ai Soul Stirrers, il principale gruppo gospel dell’epoca. La composizione è fresca di un grande successo nazionale, nonchè della defezione del più brillante dei suoi membri, Rebert Harris, forse l’innovatore del genere ed il primo che lo aprì al palato laico del grande pubblico.

Tanta perplessità caratterizza l’accoglienza iniziale di Sam, che si trasforma quasi istantaneamente però in una adorazione di massa. Sam ci sa fare, incanta, seduce, è elegante, è un bel tipo, non eccede (anche grazie alla presenza e al sostegno del padre – raramente musicisti dell’epoca hanno avuto un background famigliare tanto comprensivo) raggiunge tutte le preziosità vocali di Harris (l’introduttore del falsetto nella musica popolare), sforna successi dopo successi.

Ma cede alle lusinghe della nuova tentazione laica, molla il Gospel dei Soul Stirrers e tenta la carriera solista. Di nuovo, è il padre a sostenerlo nella scelta, e pare proprio con uno spirito profetico.

E’ infatti il 1957 quando incide You Send Me, vero e imitatissimo capolavoro del genere. La voce è pulita, vellutata, sensuale e libera da ogni eccesso di romanticismo tipico dell’epoca. Per le orecchie del vostro Machete, praticamente perfetta. E così, sembra, la pensarono in molti, dal momento che You Send Me è il primo singolo a balzare in testa alle classifiche RnB e pop contemporaneamente. Ci vorranno diversi anni prima che qualcun altro (Ray Charles con Georgia on My Mind, per capirci) ci riesca.

Da lì una pioggia di successi, tutti caratterizzati da una limpidezza nel canto, una semplice, coinvolgente energia che sa d’entusiasmo e di un trasporto genuino, in ballate malinconiche come A Change is Gonna Come, brani di pura danzabilità  come Twistin the Night Away o nella semplicissima, irraggiungibile What a Wonderful World, canzone easy listening dedicata ad un pubblico in età da scuola ma adatto alle orecchie e al gusto di ogni persona.

Termina brutalmente questa corsa al successo, priva degli eccessi e degli scandali che avrebbero poi caratterizzato le biografie di tanti colleghi.

Sam viene trovato morto l’11 dicembre 1964 in un alberghetto di Los Angeles da tre dollari a notte. Davanti aveva appena parcheggiato un auto da quattordicimila. Bertha Franklyn, la proprietaria del motel, gli spara e alla polizia dichiara di averlo fatto per legittima difesa. Le sbrigative indagini la dicono lunga sulla poca trasparenza della morte di quella che in quegli anni era senza dubbio la star afroamericana di maggior risonanza.

Sam. Ho potuto farlo. Qualche parola in più, augurandomi che serva a incuriosire chi ancora non ti ha conosciuto.

The Night of The Spiderman, ovvero un mito da dissotterrare e diffondere

Standard

Potrebbe essere l’ennesima stranezza di cui diventare un cultore. Ma per un discutibile dj notturno come me, the Night pf the SpiderMan di Peter Griffin è molto più di tutto questo.

Peter Griffin fu uno dei tanti miti passeggeri dell’altrettanto rapida parabola della EuroDisco. Un dj tedesco dalla voce decisamente androgina, in questa sua hit (da noi praticamente sconosciuta) unisce in maniera mirabolante (e un po’ allucinata) sonorità degne degli Oliver Onions, qualcosa di Sandokan, Born to Be Alive di Patrick Hernandez e violini invasivi che non avrebbero sfigurato in una canzone dei Boney M.

Come ho fatto a conoscere questo gioiello? Potrei cavarmela elegantemente dicendo che me la consigliò diversi anni fa un carissimo amico, collega del culto dell’improbabilità. Ma questo potrebbe non bastare. Io credo che questa canzone sia in agguato ciclicamente sul web, attendendo che ad intervalli periodici qualcuno la riesumi, seppure brevemente.

Potrebbe diventare il nuovo tormentone estivo (non penso che abbia qualcosa in meno delle tante ossessioni estive che abbiamo sentito negli ultimi anni), potrebbe diventare una specie di riconoscimento in codice da fischiettare tra gli estimatori del genere.

Ovvio, il fatto che il cantante si chiamasse come un Peter Griffin più celebre rende la spiegazione un po’ più lunga e difficile… No, non è il Peter Griffin dei cartoni animati… No, dico davvero, sentitela…

E’ una missione dura, ma nessuno ha mai detto che gli eroi abbiano avuto vita facile.

Peter Griffin